La mancata crescita dell'Italia è solo stata aggravata dalle ultime
crisi (finanziaria globale del 2008, e del debito sovrano nel 2011), ma è
in corso da oltre vent'anni. E' noto che essa è in realtà
riconducibile ad una mancata crescita della produttività totale dei fattori.
Spesso, la causa viene individuata nella scorretta allocazione
del fattore lavoro. Ma anche il capitale per investimenti non è stato allocato nel
migliore dei modi, anche se di questo si parla meno.
Una delle radici di ciò,
è certamente
riscontrabile nell'assetto proprietario delle banche italiane.
Queste furono privatizzate nel 1990 dalla cosiddetta legge
Amato, che trasformò le
vecchie Casse di Risparmio in fondazioni bancarie, proprietarie inizialmente
del 100% del capitale delle banche cosiddette conferitarie. Tale capitale
avrebbe dovuto negli anni essere venduto ai privati, ottenendo così la privatizzazione
del sistema bancario italiano, in linea con gli standard europei.
Tuttavia, le fondazioni detengono tutt'oggi quote di capitale
nelle banche. Ad aggravare l'intreccio e' intervenuto Tremonti nel 2002, che
stabilì che i
vertici delle fondazioni dovessero essere di nomina politica e che le stesse
dovessero dismettere le quote di proprietà
nelle banche, concentrando la propria attività nella promozione del territorio.
Mentre la prima indicazione della legge fu seguita alla lettera, così non è stato per la
seconda.
La procedura di nomina funziona in breve così.
I politici eletti negli enti locali, nominano i dirigenti delle
fondazioni bancarie. I dirigenti nominati nelle fondazioni bancarie, per lo più politici senza competenze in materia finanziaria,
scelgono i dirigenti delle banche di cui le fondazioni detengono ancora quote
di proprietà,
nonostante la legge ne abbia imposto la dismissione. Le banche, erogano così
credito preferibilmente a chi fa più
comodo ai politici, che possono quindi comprare consenso, oppure trarne
vantaggi finanziari personali.
Per chiudere il cerchio, le fondazioni, anziché investire le
risorse nella promozione del territorio di riferimento e diversificare gli
investimenti, come dovrebbero per legge, preferiscono concentrarle nel non
perdere il potere che detengono nelle banche.
Cosa ha comportato e comporta, quindi, questo intreccio
perverso?
Sono ricorrenti notizie del tipo: "sofferenze bancarie in
aumento", oppure: "azienda fallita, anche se aveva lavoro, perché la banca non
concede credito".
Siamo da tempo entrati in un circolo vizioso per il quale i
numerosi fallimenti aziendali hanno comportato “sofferenze
bancarie”,
ovvero situazioni in cui le banche non hanno più
potuto ricevere indietro il credito
precedentemente offerto.
Le banche, in conseguente sofferenza di capitale da concedere a
prestito, hanno “chiuso
i rubinetti”,
limitando i casi in cui concedono credito, ed applicando elevati tassi d’interesse per rientrare delle perdite trascorse e potenziali. Risultato: il poco credito alle imprese italiane, risulta più costoso nel confronto con i competitors europei.
Come si è
arrivati a questa situazione?
Un'interessante chiave di lettura e' riscontrabile in uno studiodegli economisti Ottaviano e Hasan, pubblicato su voxeu.org.
Dai dati, essi hanno evidenziato come in Italia, tra il 1995 e
il 2006, si sia investito maggiormente in settori manifatturieri che hanno
registrato bassa crescita di produttività, se non addirittura una diminuzione.
In Germania, e' avvenuto invece l'opposto.
L’investimento, ad esempio un nuovo macchinario con
cui il lavoratore può
produrre più efficientemente,
dovrebbe essere appunto finalizzato alla crescita della produttività.
Una impresa
più produttiva
può offrire
salari più alti
e crescere, offrendo nuovi posti di lavoro.
Ma abbiamo visto che in Italia non è andata proprio così.
Molto spesso, l’azienda, per disporre del capitale necessario all’investimento ricorre al credito. Ma come e' stato allocato il
credito in Italia?
Dallo stesso studio, emerge che non c'è stata alcuna correlazione tra credito
erogato e crescita di produttività: le imprese degli amici non si sono rivelate
essere poi quelle più
solide e innovative.
Inoltre, attraverso delle simulazioni, hanno dimostrato che, per quanto riguarda il
solo settore manifatturiero, se le risorse fossero state allocate a caso anziché con discrezionalità partitocratica, si sarebbe addirittura registrata una maggiore
crescita di produttività.
Ma non è
finita; complici la crisi finanziaria del 2008 e la crisi del debito
sovrano del 2011, si è
innestata una spirale negativa: le imprese poco produttive, verso cui
era stato preferito il credito, sono fallite più
facilmente, non potendolo restituire alle banche. Le banche, in
conseguente sofferenza, hanno "chiuso i rubinetti", negando
ulteriormente credito a chi lo meriterebbe. Le fondazioni politicizzate, nel
mentre, si sono sistematicamente opposte ad aumenti di capitale nelle banche,
per non diluire le proprie quote di potere, aggravando ulteriormente la stretta
creditizia.
Questi sono solo alcuni dei danni che ha comportato la
discrezionalità nell'allocazione del credito, che si concretizza
attraverso il ruolo di influenza che i partiti riescono ad avere nelle banche
mediante le fondazioni.
Chiamiamola, se vogliamo, partitocrazia 2.0.
"La produttività non è tutto, ma nel
lungo periodo e' quasi tutto. L'abilità di un paese nel
migliorare i propri standard di vita nel tempo dipende quasi esclusivamente
dalla sua abilità di accrescere il proprio prodotto per lavoratore".
La crescita, così
difficile da riagguantare in maniera duratura da vent'anni a questa
parte, è nell'interesse
del benessere di tutti noi italiani, nessuno escluso, a partire dai più deboli.
Un pil in crescita garantisce, oltretutto, la sostenibilità dell'enorme debito pubblico, del bilancio, e di spese elefantiache
che ci troviamo a dover sopportare, come ad esempio quelle per il sistema
pensionistico più costoso
d'Europa (che andrebbero tagliate anche per una semplice questione di equità inter-generazionale,
ma questa e' un'altra storia).
Anche per questo, ora più
che mai bisogna dire con convinzione: fuori i partiti dalle banche e
credito a chi lo merita.
Nicolò Gnocato
N.B. Nicolò
Gnocato, iscritto a Radicali Italiani dal 2013, ha contribuito a redigere
ed è tra i
primi firmatari dell'appello per chiedere al parlamento di legiferare imponendo
la dismissione delle quote di proprietà
delle fondazioni nelle banche.
Maggiori informazioni possono essere trovate al link: radicali.it/banche, dove è anche possibile sottoscrivere
l'appello al parlamento e contribuire alla campagna.
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