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17 aprile 2014

Fuori i partiti dalle banche = più produttività e crescita

La mancata crescita dell'Italia è solo stata aggravata dalle ultime crisi (finanziaria globale del 2008, e del debito sovrano nel 2011), ma è in corso da oltre vent'anni. E' noto che essa è in realtà riconducibile ad una mancata crescita della produttività totale dei fattori.

Spesso, la causa viene individuata nella scorretta allocazione del fattore lavoro. Ma anche il capitale per investimenti non è stato allocato nel migliore dei modi, anche se di questo si parla meno.
Una delle radici di ciò, è certamente riscontrabile nell'assetto proprietario delle banche italiane.
Queste furono privatizzate nel 1990 dalla cosiddetta legge Amato, che trasformò le vecchie Casse di Risparmio in fondazioni bancarie, proprietarie inizialmente del 100% del capitale delle banche cosiddette conferitarie. Tale capitale avrebbe dovuto negli anni essere venduto ai privati, ottenendo così la privatizzazione del sistema bancario italiano, in linea con gli standard europei.

Tuttavia, le fondazioni detengono tutt'oggi quote di capitale nelle banche. Ad aggravare l'intreccio e' intervenuto Tremonti nel 2002, che stabilì che i vertici delle fondazioni dovessero essere di nomina politica e che le stesse dovessero dismettere le quote di proprietà nelle banche, concentrando la propria attività nella promozione del territorio. Mentre la prima indicazione della legge fu seguita alla lettera, così non è stato per la seconda.



La procedura di nomina funziona in breve così.
I politici eletti negli enti locali, nominano i dirigenti delle fondazioni bancarie. I dirigenti nominati nelle fondazioni bancarie, per lo più politici senza competenze in materia finanziaria, scelgono i dirigenti delle banche di cui le fondazioni detengono ancora quote di proprietà, nonostante la legge ne abbia imposto la dismissione. Le banche, erogano così credito preferibilmente a chi fa più comodo ai politici, che possono quindi comprare consenso, oppure trarne vantaggi finanziari personali.
Per chiudere il cerchio, le fondazioni, anziché investire le risorse nella promozione del territorio di riferimento e diversificare gli investimenti, come dovrebbero per legge, preferiscono concentrarle nel non perdere il potere che detengono nelle banche.
Cosa ha comportato e comporta, quindi, questo intreccio perverso?

Sono ricorrenti notizie del tipo: "sofferenze bancarie in aumento", oppure: "azienda fallita, anche se aveva lavoro, perché la banca non concede credito". 
Siamo da tempo entrati in un circolo vizioso per il quale i numerosi fallimenti aziendali hanno comportato “sofferenze bancarie”, ovvero situazioni in cui le banche non hanno più potuto ricevere indietro il credito precedentemente offerto. 


Le banche, in conseguente sofferenza di capitale da concedere a prestito, hanno chiuso i rubinetti, limitando i casi in cui concedono credito, ed applicando elevati tassi dinteresse per rientrare delle perdite trascorse e potenziali. Risultato: il poco credito alle imprese italiane, risulta più costoso nel confronto con i competitors europei.




Come si è arrivati a questa situazione? 
Un'interessante chiave di lettura e' riscontrabile in uno studiodegli economisti Ottaviano e Hasan, pubblicato su voxeu.org.
Dai dati, essi hanno evidenziato come in Italia, tra il 1995 e il 2006, si sia investito maggiormente in settori manifatturieri che hanno registrato bassa crescita di produttività, se non addirittura una diminuzione. In Germania, e' avvenuto invece l'opposto.


Linvestimento, ad esempio un nuovo macchinario con cui il lavoratore può produrre più efficientemente, dovrebbe essere appunto finalizzato alla crescita della produttività. 
Una impresa più produttiva può offrire salari più alti e crescere, offrendo nuovi posti di lavoro.
Ma abbiamo visto che in Italia non è andata proprio così.

Molto spesso, lazienda, per disporre del capitale necessario allinvestimento ricorre al credito. Ma come e' stato allocato il credito in Italia?
Dallo stesso studio, emerge che non c'è stata alcuna correlazione tra credito erogato e crescita di produttività: le imprese degli amici non si sono rivelate essere poi quelle più solide e innovative.
Inoltre, attraverso delle simulazioni, hanno dimostrato che, per quanto riguarda il solo settore manifatturiero, se le risorse fossero state allocate a caso anziché con discrezionalità partitocratica, si sarebbe addirittura registrata una maggiore crescita di produttività.
Ma non è finita; complici la crisi finanziaria del 2008 e la crisi del debito sovrano del 2011, si è innestata una spirale negativa: le imprese poco produttive, verso cui era stato preferito il credito, sono fallite più facilmente, non potendolo restituire alle banche. Le banche, in conseguente sofferenza, hanno "chiuso i rubinetti", negando ulteriormente credito a chi lo meriterebbe. Le fondazioni politicizzate, nel mentre, si sono sistematicamente opposte ad aumenti di capitale nelle banche, per non diluire le proprie quote di potere, aggravando ulteriormente la stretta creditizia.

Questi sono solo alcuni dei danni che ha comportato la discrezionalità nell'allocazione del credito, che si concretizza attraverso il ruolo di influenza che i partiti riescono ad avere nelle banche mediante le fondazioni.
Chiamiamola, se vogliamo, partitocrazia 2.0.


Per concludere, qualcuno potrebbe chiedersi cosa comporta la mancata crescita di produttività che ho spesso menzionato. Ricorro ad un'affermazione di Paul Krugman, noto economista premio nobel, del quale non condivido molto le idee, ma che ha saputo condensare molto bene il concetto:

"La produttività non è tutto, ma nel lungo periodo e' quasi tutto. L'abilità di un paese nel migliorare i propri standard di vita nel tempo dipende quasi esclusivamente dalla sua abilità di accrescere il proprio prodotto per lavoratore".

La crescita, così difficile da riagguantare in maniera duratura da vent'anni a questa parte, è nell'interesse del benessere di tutti noi italiani, nessuno escluso, a partire dai più deboli.
Un pil in crescita garantisce, oltretutto, la sostenibilità dell'enorme debito pubblico, del bilancio, e di spese elefantiache che ci troviamo a dover sopportare, come ad esempio quelle per il sistema pensionistico più costoso d'Europa (che andrebbero tagliate anche per una semplice questione di equità inter-generazionale, ma questa e' un'altra storia).
Anche per questo, ora più che mai bisogna dire con convinzione: fuori i partiti dalle banche e credito a chi lo merita.


Nicolò Gnocato


N.B. Nicolò Gnocato, iscritto a Radicali Italiani dal 2013, ha contribuito a redigere ed è tra i primi firmatari dell'appello per chiedere al parlamento di legiferare imponendo la dismissione delle quote di proprietà delle fondazioni nelle banche.
Maggiori informazioni possono essere trovate al link: radicali.it/banche, dove è anche possibile sottoscrivere l'appello al parlamento e contribuire alla campagna.

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