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23 giugno 2014

Iniquo compenso, la vittoria mutilata

I provvedimenti si firmano di sabato pomeriggio, durante le partite dei mondiali, così magari la gente non se ne accorge...o forse no. L'Italia perde contro il Costa Rica, gli italiani perdono, per l'ennesima volta, contro i poteri forti, il clientelismo, il far cassa facile a discapito dei soliti onesti.

Il provvedimento in questione formalmente tratta dell'adeguamento dell'equo compenso dei diritti d'autore sulle memorie digitali, in pratica si tratta di un aumento fino al 500% di una quota che i produttori di dispositivi con memorie (smartphone, macchine fotografiche, tablet, computer etc) e memorie di massa devono pagare per poter vendere i loro prodotti basata sul principio che tu possa non comprarti la stessa canzone due volte per ascoltare un brano acquistato per esempio sia su telefono che su computer...un pò come mettere un sovrapprezzo alle macchine per poter percorrere due tipi di strade diverse senza dover acquistare un'altra stessa macchina. Il ministro Franceschini ci tiene a ribadire che non è una tassa...ma in altri contesti si chiama pizzo.


30 maggio 2014

La scintilla di Fare

Travolti dal vento europeo, dal populismo grillino e dalla paura anti-grillina. In un'Europa euroscettica, in un'Italia atipica renziana molto prima che di sinistra. Spettatori (inermi) del disgregamento della destra e del crollo del Berlusconismo, di un terrore a 5 Stelle che ha costruito, urla su urla, piazza su piazza, il trionfo (con distacco abissale) del PD.

Tentando invano di placare e contrastare con ricette e concretezza la deriva No Euro (leggasi Lega al 6%) e la nascita di un Nuovo Centro Destra (4,38%) che non può rappresentare quello che il suo nome reclama, no. E rimane prioritaria la costruzione di un nuovo polo liberale inesploso sotto le macerie di una rivoluzione attesa dal lontano '94. Benché realisticamente l'identificazione di solidità assunta da Renzi, capace di calamitare voti di tutte le "razze", l'ha dotato di un'etichetta e di un bacino ad ampio raggio.

23 maggio 2014

Euro tutela contro il Leviatano

In concomitanza con le elezioni europee, si sta inasprendo il dibattito attorno alle cause del pluridecennale declino italiano. Ogni partecipante alla campagna elettorale ha un sua ricetta particolare che, se applicata, riporterebbe crescita e benessere al paese.

Le varietà di queste acque miracolose sono delle più varie: vi rientrano, a mo’ di esempio, stampanti treddì, aumenti di spesa, vivisezioni di cani, dazi e barriere all’immigrazione. Il rimedio per eccellenza, quello proposto in gran pompa da ormai tutta la casta, consiste nell’abbandono della moneta unica europea, per ritornare alla compianta Lira. Al lato “destro” dello schieramento, si propone un uscita “tout-court” dalla moneta unica. Alla sinistra del PD, si vuole qualcosa di più discreto, ovvero uscire solo dai trattati che limitano la possibilità di spesa. Solo riacquistando la possibilità di spesa illimitata, si può ridare benessere ai cittadini. Il MoViMento di Grillo cerca, come al solito, di tenere il piede in due scarpe, e propone una via di mezzo ai due.
In questo articolo non voglio discutere se l’abbandono dell’euro sarebbe conveniente o meno, tema gia ampiamente discusso su questo ed altri blog. Più che altro, mi interessa discutere una particolare proposizione della vulgata populista di cui sopra: uscire dall’euro è davvero un bene per il popolo, per l’italiano medio? Cerchiamo di capire perché la casta, nella sua interezza, volle entrare nell’euro ad inizio anni novanta e perché, nella sua interezza, voglia uscirne ora.

Ad inizio anni ’90, l’Italia sta affrontando una importante crisi, che sfocerà con l’uscita del paese dallo SME. Le incertezze sul futuro economico del paese, che aveva finanziato la sua crescita negli anni precedenti creando uno dei debiti più consistenti del pianeta, avevano portato un’impennata al livello dei tassi di interesse reali che gli investitori richiedevano per acquistare titoli di stato Italiani. Da un lato, vi erano grossi dubbi sul fatto che l’Italia fosse in grado di contenere la sua spesa pubblica: dall’altro, si temeva che il governo avrebbe giocato sulla leva del cambio e dell’inflazione per ridurre il valore del proprio debito. Il grafico sotto mostra il problema: le aspettative degli investitori si stavano auto-avverando, e l’Italia, dal ‘91 al ’96, paga tassi di interessi a reali a dieci anni fra il 5 e l’8%. Una situazione non sostenibile nel medio periodo.
Come riuscire a cambiare le aspettative degli investitori? L’Italia aveva una sola opportunità per farlo: aderire al progetto Euro. In quegli anni stava iniziando il disegno della moneta unica. Aderirvi significava, oltre alla rinuncia all’utilizzo della politica monetaria, grandi limiti a quella fiscale. I governi di allora colsero la palla al balzo e, a suon di aumenti di tasse, patrimoniali, riforme delle pensioni, riuscirono a convincere i nostri partner europei che l’Italia era un paese riformabile. Quando divenne chiaro che l’Italia sarebbe entrata nell’euro, i tassi di interesse crollarono, arrivando a sfiorare l’1% nel 2003. Quasi un sesto del picco del ’95. 


Il paese, a costo di grandi sacrifici, era salvo. Il crollo del tasso di interesse aveva portato grandi risparmi di spesa, data la mole consistente del nostro debito pubblico. Purtroppo, l’allentamento della disciplina imposta dai mercati finanziari, e l’arrivo di un cospicuo dividendo già pagato dagli italiani a suon di balzelli, congelò le azioni prese dai nostri governi per risanare il paese. Come mostrano i grafici successivi, la produttività langue, il deficit si allarga, e la spesa ordinaria aumenta specularmente a fronte della riduzione della spesa per interessi. In soldoni, il “dividendo dell’Euro” viene usato dalla casta per mantenere in piedi un baraccone corrotto ed inefficiente, foraggiando i vari Lusi, Batman e Belsito.  


Ora, a vent’anni di distanza dalla crisi del ’92, l’Italia rischia di dover uscire di nuovo dall’unione valutaria europea. Con la crisi del debito sovrano ed i più stringenti vincoli di Maastricht, l’Euro è diventato un vincolo alla spesa. Finora, come un cieco uroboro, lo Stato è sopravvissuto divorando se stesso. Ma il gioco non regge più. Non potendo alzare ulteriormente le tasse, e non essendo in grado di riformarsi, l’unico modo che ha di finanziarsi è trasferire ricchezza dal futuro, ovvero indebitarsi. Ma se la storia insegna qualcosa, non possiamo aspettarci che quei soldi vengano usati a favore dei cittadini: al contrario, verranno usati per dissetare l’insaziabile leviatano…fino alla prossima crisi.

Il 25, votare contro l’Euro vuol dire votare contro l’unica tutela che il cittadino ha nei confronti del proprio governo.


Giandomenico Ciccone

20 maggio 2014

L' incubo grillino e il sogno liberaldemocratico

Nella serata di ieri ho avuto la netta e clamorosa impressione di vivere, per un' insolita sequenza di eventi e situazioni, un vero e proprio incubo politico. Tralasciando il fatto che ricorreva il secondo anniversario della notte in cui un violento terremoto si è abbattuto sulla mia Emilia, in televisione è riapparso, dopo un ventennio di assenza dalle dirette Rai, il leader del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo nella trasmissione di Bruno Vespa "Porta a Porta".

Proprio qui comincia il brutto sogno: colui che da vent'anni critica la televisione e la qualità dell'informazione italiana, si presenta nel talk show condotto da un giornalista che per lo stesso lasso di tempo non è stato certo un esempio da seguire in quanto ad imparzialità , poiché vero e proprio "zerbino" di Berlusconi e dei governanti di turno. I più attempati di me ricorderanno con certezza le sviolinate di Vespa ad un Cavaliere in cattedra che prometteva agli italiani i punti del famoso contratto, poi completamente disatteso.

Nella stessa sera ho inoltre partecipato all'ultimo consiglio comunale del mandato 2009-2014 nel mio paese (San Felice sul Panaro) ed ho scoperto che il Movimento 5 Stelle è fondamentalmente irrispettoso e antimeritocratico. Ad un certo punto uno dei presenti, conosciuto per essere presente in una lista civica che si ispira al M5S, se ne esce con un "Sindaco, dici cazzate!", a seguito di una dichiarazione di quest'ultimo, con conseguenti parole pesanti.

Proprio qui invito a riflettere tutti i lettori. La sparata del grillino, che dal mio punto di vista è l'esatta fotografia del livello di dibattito politico all'interno del movimenti, non è indice di merito poiché chiunque, anche un analfabeta totalmente incompetente in amministrazione comunale, avrebbe potuto farla, senza di fatto risolvere il problema della ricostruzione post terremoto. Sempre dal punto di vista di chi vi scrive, sono senza dubbio più meritevoli le interrogazioni dei consiglieri di opposizione e le relative risposte degli assessori, che si battono in maniera costruttiva per ri-costruire un paese migliore per i cittadini nella loro totalità.

Proprio qui mi sento di concludere, immaginando un possibile scenario post elettorale con un parlamento europeo popolato da questi tipi di esponenti politici che esprimono livelli di dibattito politico non dissimili da quelli a cui ho avuto il (dis)piacere di assistere nella serata di ieri.
Al risveglio da questo brutto sogno ricordo però di un certo Guy Verhofstadt , ex premier belga convintamente liberale, che sembra anche essere carismatico al punto giusto. Forse è il caso di informarsi bene...


Nicolò Guicciardi

15 maggio 2014

Guy Verhofstadt, il nostro candidato

Guy Verhofstadt. Chi è?

Questa era la domanda che i primi sostenitori di Scelta Europea si facevano. Ricordo come se fosse ora gli errori nello scrivere e nel pronunciare correttamente il suo nome, il chiedersi perché candidare alla Commissione Europea un belga e non un italiano, i dubbi sui suoi capelli (ma è un parrucchino??). Io lo conoscevo da parecchio tempo, avevo letto i suoi libri e le sue proposte, mi veniva da ridere. Poi abbiamo iniziato tutti a leggerlo, a vederlo nei video, a fare il tifo per lui agli incontri pubblici, ad applaudirlo, a chiamarlo "presidente". Perchè è questo che è, Guy Verhofstadt. Il nostro presidente. Il presidente del nostro eurogruppo, l'Alleanza dei Liberali e Democratici per l'Europa (ALDE).

Verhofstadt nasce a Dendermonde l'11 aprile 1953 e inizia rapidamente la sua carriera politica, quando nel 1972 viene eletto presidente dell'unione degli studenti liberali fiamminghi a Gand, una città belga. Un esempio, il suo, che tutti gli universitari italiani dovrebbero seguire: pensate che alle elezioni universitarie del mio ateneo solo meno del 20% degli aventi diritto ha votato... Ormai la politica universitaria è decisamente sottovalutata, ma così non dovrebbe essere: è pur sempre la prima esperienza "sul campo". Tornando al nostro Guy, arriva finalmente la laurea, nel 1976, in giurisprudenza. E' poi un succedersi di elezioni, che lo porteranno da membro del consiglio comunale di Gand fino ad arrivare alla nomina a Primo Ministro belga, nel 1999. Con che partito? Beh, il nostro mitico Verhofstadt non poteva che fondarsene uno suo, nel 1992: il Vlaamse Liberalen en Democraten (i Democratici e Liberali Fiamminghi, abbreviato VLD). Pensate un po': il VLD nasce come partito fortemente thatcheriano! Un bene o un male? Io un' idea ce l'ho, ma non voglio creare inutili discussioni, perché con il tempo il partito è diventato più moderato, spostandosi su una linea più sociale e solidaristica (pur restando nella famiglia del centrodestra belga). C'è da dire che Guy inizialmente non era un europeista convinto. Esatto, avete capito bene! Ma a quanto pare, l'aria che si respira nel Parlamento Europeo gli ha fatto cambiare idea, almeno quella che si respira tra i banchi del gruppo ALDE.

Consiglio a tutti la lettura del libro "Per l'Europa! Manifesto per una rivoluzione unitaria", (Mondadori, 2012) scritto con Daniel Cohn-Bendit, del gruppo dei Verdi. In questo libro, che vale mille spot elettorali, troverete il progetto che questi due signori hanno per l'Europa di domani (sono i fondatori del Gruppo Spinelli, fondato nel 2010 per il rilancio dell'integrazione europea): un'Europa di domani che sia federata, sia dal punto di visto economico sia da quello fiscale, ma soprattutto dal punto di vista politico. E' questa la chiave proposta fondamentalmente da Verhofstadt e dall'ALDE, la chiave che potrebbe spalancare la porta della crescita e del rilancio europeo. Un'Europa che parli con una sola voce al tavolo dei grandi, un'Europa che vigili e risolva il problema dei clandestini unendo gli sforzi dei vari reparti di sicurezza nazionali, un'Europa che apra un'area di libero mercato con gli Stati Uniti (dobbiamo essere fieri di essere atlantisti!), un'Europa che salvaguardi la privacy dei suoi cittadini, un'Europa che difenda i diritti e le libertà civili di tutti ma proprio tutti, un'Europa che difenda l'ambiente e che promuova la green economy, un'Europa che sia laica nelle sue istituzioni e che sia simbolo di onestà e rigore, un'Europa che sia faro di speranza per chi cerca opportunità di lavoro e di studio. Insomma l'Europa che vogliamo noi, di Scelta Europea.

Siamo fortunati ad avere un capitano coraggioso al timone della nostra nave: un leader carismatico, che risponde con pragmatiche proposte liberaldemocratiche al conservatorismo popolare e a quello socialista: rafforzare il ruolo della Commissione Europea, minor regolamentazione inefficiente nel mercato interno europeo, unificazione dei mercati digitali, leggi chiare in tema immigrazione come negli USA, giusto per citarne alcune. Proposte a cui gli altri candidati non sono in grado di dibattere, perché sanno che sono l'unico modo per uscire da questa crisi che da troppi anni ci perseguita. Non a caso Verhofstadt è risultato vincitore ad ampia maggioranza nei sondaggi, immediatamente dopo i due confronti televisivi.

Guy ha fatto tanto per noi italiani liberaleuropeisti. E' stato lui a volerci vedere uniti in un'unica lista, con un programma in comune, con la volontà di vincere in comune. Non dobbiamo deluderlo, abbiamo un debito in questo momento. E i debiti vanno saldati, il 25 maggio ma soprattutto DOPO. Costruiamo una forza unitaria liberale, una volta per tutte. E se non lo volete fare per Guy Verhofstadt, fatelo almeno per i vostri figli.


Daniel Baissero

14 maggio 2014

Fini liberali?

Torna oggi, dopo circa tre settimane di silenzio, il fatto del giorno su questo blog. Vista la lunga attesa, quello di oggi vuole essere un articolo che andrà fortemente controcorrente e che forse scatenerà un acceso dibattito tra i lettori.

Proprio ieri l'altro l'ex presidente della camera dei deputati , nonché leader del defunto Futuro e Libertà, Gianfranco Fini ha dichiarato che il suo voto alle imminenti elezioni europee andrà a Scelta Europea, coalizione che sostiene in candidato liberale Guy Verhofstadt alla presidenza della commissione europea.
Come si può immaginare, subito sono seguite notevoli fibrillazioni nei commenti di chi ha appreso questa notizia, specialmente tra gli elettori di Fare, uno dei partiti presenti nella coalizione liberale.

Ebbene si, proprio Gianfranco Fini, delfino dello storico e intramontabile leader del Movimento Sociale Italiano Giorgio Almirante, ora si dichiara liberaldemocratico. Detta così, questa trasformazione potrebbe suscitare nei lettori le più grasse risate schernitrici verso il declino inarrestabile di colui che aveva tutte le carte in regola per diventare il futuro leader della destra italiana.

Se però analizziamo più a fondo la parabola di Fini, appare con chiarezza che questa rappresenterebbe la strada ideale di "redenzione" di un elettore auspicata da Fare per Fermare il Declino e le altre forze a sostegno di Scelta Europea. L'ex delfino missino ha dimostrato grande maturità nel rendersi conto che gli assetti economici e sociali europei stavano subendo un inesorabile mutamento, specie in seguito all'adozione della moneta unica.  E che le idee e i programmi di stampo identitario e di estrema destra con il motto "dio patria e famiglia" a farla da padrone, ora reincarnate nei Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni, non erano più al passo coi tempi e si sarebbe dovuto necessariamente virare verso idee plurali ed europeiste. Non è forse Scelta europea che sta intraprendendo di questi tempi una sacrosanta battaglia per aprire gli occhi a tutti quegli elettori obnubilati dalle sparate di Grillo e dei No Euro?

Gianfranco Fini è stato senza ombra di dubbio un personaggio controverso e criticabile su molti fronti, ma forse se la sua metamorfosi fosse stata capita, con ogni probabilità oggi in Italia avremmo un centrodestra moderno e votabile anche se con qualche difetto, in grado di farsi rispettare di fronte agli scenari europei e internazionali.



Nicolò Guicciardi 

12 maggio 2014

Rivoluzionari Veri

Trilogia delle battaglie per i valori assoluti (cap.III)

Alle volte capita a tutti noi di sentirci pesanti per colpa del fardello che ci portiamo sulle spalle. Come uno zaino enorme, simile a quelli che si usano per le escursioni e i campeggi. Una sacca piena di conoscenza, esperienza, vita vissuta, sogni, pensieri, un pizzico di mal di vivere, la gioia di alcuni momenti indimenticabili, lo stress della giornata odierna, la consolazione di pensare che domani andrà meglio. Una cartella piena del nostro passato che ci schiaccia la schiena e molte volte questa pesantezza ci riduce, di sera, a sprofondare in poltrona. Ma fuori dalla finestra di casa c’è troppo buon vino da bere per starsene seduti in salotto, annichiliti da ciò che siamo stati. Quindi il mio proposito di oggi sarà quello di cercare qualcosa che tutti possiamo buttare via per alleggerire lo zaino e poter quindi mescere il vino.

La cosa del nostro passato che oggi, noi Italiani, dovremmo buttar via è il totalitarismo nascosto in noi.
Intendo quello che dobbiamo ancora perdere, quello di odore fascista e che tuttora ci accompagna. Signori è questo che dobbiamo sforzarci di buttare via, il fascismo latente.  Il fascismo latente che accompagna gli italiani e in cui io rivedo uno dei problemi fondamentali di molti partiti. Ora la domanda giusta è: ‘Perché pensi che nel 2014 il popolo Italiano sia ancora un po’ totalitarista?’ E la risposta giusta è: ‘Perché è così.’  Ha dei residui, delle scorie tossiche, che si sono infiltrate nella sua mentalità e si sono mimetizzate perfettamente.   

Mi sono accorto di una di esse poco tempo fa, quando sentii, non ricordo bene su che mezzo d’informazione, che i partiti e gli italiani hanno bisogno di un leader forte.  Questa è una delle bugie più grosse che abbia mai sentito, perché gli italiani non hanno bisogno di un leader forte, loro vogliono un leader forte, che è cosa ben diversa. Si sentono persi, impauriti, stremati dalla crisi. Molti non capiscono, perché non hanno gli strumenti per capire, il complicato mondo dei giochi politici, o le reti di imbrogli e finissimi nodi della legge, oppure  i moti vorticosi e i flussi virulenti dell’economia. Davanti a questo sentimento che può essere accomunato solo all’angoscia terribile, lenta e corrosiva, molti  smarriti vogliono un leader forte che gli dica: ‘Hey tranquillo, adesso ci penso io’ .  Sapete perché questo è pericoloso? Perché i capi forti tranquillizzano, ma imbrigliando la volontà delle masse, le fanno restare nella propria ignoranza e le impigriscono, le allontanano dalla politica indirettamente, dato che chi vota il grande capo si fida di lui e lui sa già quello che deve fare, tu votandolo hai già fatto quello che potevi. Fine del tuo compito. Il grande capo da risalto, ma allo stesso tempo oscura il partito, infatti il suo gruppo di appartenenza politica diventa irrilevante nell’opinione pubblica, del resto a un grande generale spettano grandi poteri decisionali e detto questo cosa volete che contino i sottoufficiali rispetto a lui.  Quindi si parla sempre di lui, poche volte di quelli  che gli stanno dietro. Sulle ombre c’è poco da descrivere.

I grandi leader, per essere carismatici si presentano, poi, come salvatori, come persone che cambiano il giro, amplificando all’inverosimile il potere reale delle proprie soluzioni. Sono figure teatrali, animali da palco. Che dipingono un eden con le parole e poi vi dicono: ‘Se mi votate lo potete avere anche voi.’ Cari lettori avete notato che qua quelli che prendono più voti sono i partiti dei grandi leader? Sicuramente sì. Spero che insieme a questo abbiate notato anche che ai grandi capi non vanno a genio le persone che non vanno d’accordo con loro, all’interno del proprio gruppo politico.  E’ quasi scontato che mettano nei posti di rilievo strategico persone a loro favorevoli, che cerchino di portare a se persone a loro sfavorevoli e caccino da se chi, con volontà inamovibile, dà loro contro. Difficile in queste condizioni offrire il ricambio politico, necessario per combattere la disonestà, visto che la politica, per funzionare bene deve essere un mare scosso dalla tempesta. Nella tempesta le acque non imputridiscono mai.

E ora ditemi che, desiderare e sperare nell’entrata in politica di una persona del genere, non è una malcelata scheggia di fascismo che c’è rimasta nello zaino. Toglierla sarebbe da veri rivoluzionari, farsi abbindolare da essa no di certo. Per fortuna esiste, in questo paese, un partito che è privo di questo cancro e potete votarlo tutti quanti!

Questo partito è Fare per Fermare il Declino che non ha un leader forte e questo è uno dei più grandi pregi di  Michele Boldrin. Egli stesso non si concepisce come tale, infatti, come più volte ha ricordato, lui si definisce un traghettatore. Il marcare la temporaneità del suo ruolo toglie rigidezza alla sua figura e permette allo stesso tempo di percepire che all’interno di questo partito ci sono molte altre persone competenti quanto lui, in grado di ricoprire il suo ruolo. In questo modo permette al partito di crescere e proliferare, di rimanere attivo e vivace. Tratta il suo partito come un buon padre di famiglia, che vuole vedere suo figlio crescere sano, forte, e ricco di meriti. Non ha nessun interesse a metterlo in ombra e farsi potente servendosi di lui. Michele Boldrin non è un leader forte, ma lui è il leader di cui l’Italia ha bisogno. Chiaro, lucido, competente e non assetato di potere.
Se tra voi c’è qualcuno che vuole essere un rivoluzionario vero, cominci a togliere qualcosa dal suo zaino e votare per l’unico partito da ribelli. Fare per Fermare il declino.



Francesco Guidorizzi

9 maggio 2014

Di Start-up, Pizze e Pazzi

Ovvero
La figura dell’imprenditore secondo Briatore

Sono di recente incappato (casualmente, non fatevi strane idee, non leggo Repubblica!) in un video contenente uno spezzone della conferenza che Briatore ha tenuto presso l'Università Bocconi. Egli, dall’alto della sua esperienza di Manager di Successo, da consigli a degli implumi ed innocenti bocconiani su come fare impresa.  Bisogna star sul concreto, sostiene, senza ‘ste menate di “start-up”, imprese innovative, idee originali. Fate quello che fanno tutti! Fate delle pizze! Che, se fallite, almeno ve le mangiate (sic).

Con un po’ di amarezza, ho pensato a quello che succede oltre oceano, dove i manager vanno nelle università a dire alla loro futura classe dirigente: “Siate affamati, siate pazzi!”. Là, il manager è visto come colui che guida, che riesce a vedere quello che gli altri non vedono, e riesce a creare ricchezza concretizzando  le sue idee e le sue visioni. In Italia, se vuoi avere successo, ti dicono di stare nel gregge, che chi si allontana è il primo ad essere abbattuto! Mettiti sotto l’ala di Mamma Stato e ciuccia dalla sua mammella, piuttosto, o vendi patacche ai tedeschi! Se dobbiamo scommettere su quale società sarà quella con un tenore di vita migliore, quale pensate che sia? Quella con l’imprenditore di tipo “Steve Jobs” o quello di tipo “Flavio Briatore”?

Sarebbe scorretto, ed ottuso, prendersela con Briatore. Alla fine, lui è semplicemente testimone del mondo e del tempo in cui ha vissuto. E ci mostra, senza esserne la causa, i problemi di una grossa parte della nostra classe dirigente: il cinismo ottuso, il realismo cialtrone che sfocia in rassegnazione e disincanto. Questo è il prodotto, in larga parte, di ciò che l'Italia è stata, politicamente ed economicamente, fra gli anni 70 ed 80, quando lui si è formato. Perché essere innovativi e proattivi, se il modo migliore di avere successo non è essere migliore di chi ti sta sopra, ma essergli fedele? Perché intraprendere iniziative rischiose, quando il modo migliore di fare i soldi è intercettare una parte delle mazzette che il “pentapartito” distribuisce? Perché cercare la qualità, quando il modo migliore per piazzare i propri prodotti è approfittarsi delle svalutazioni della liretta? 

Ancora prima della giustizia lenta, la burocrazia, le tasse, gli speculatori, la Merkel, gli Immigrati, è proprio questa mentalità ad essere un peso per il nostro paese. Il considerare l’entusiasmo alla stregua dell’ingenuità, l’intraprendenza una forma di eccentricità.

...ma è tutta colpa dell’Euro.


 Giandomenico Ciccone

6 maggio 2014

I problemi italiani risiedono in Italia. Europa o no

I problemi italiani risiedono prima di tutto in Italia, Europa o no. 
Nel suo ultimo libro "Europa o no - sogno da realizzare o incubo da cui uscire", Luigi Zingales, noto economista della Chicago Booth School of business, analizza costi e benefici che l'ingresso in Europa e nell'Euro ha comportato per l'Italia.

Il tutto viene discusso con l'utilizzo di efficaci metafore, che rendono accessibili concetti economici anche ai profani della materia: l'Italia, ad esempio, si è legata all'Euro come Ulisse si legò all'albero maestro della propria nave per evitare i richiami delle sirene. Nel nostro caso, "le sirene" sono rappresentate dalle svalutazioni monetarie continue, e "l'albero maestro" da una moneta stabile quale l'Euro. Uno dei benefici è stato portato dal crollo dei costi di rifinanziamento del debito pubblico (dei quali il famigerato spread è un indicatore); questi risparmi, se non fossero stati tramutati in spesa corrente da scellerate politiche di governo durante i primi anni di permanenza nella moneta unica, avrebbero consentito un abbattimento del debito pubblico, allineandolo ai livelli tedeschi nel 2007; cosa che avrebbe permesso di affrontare la tempesta della crisi con meno zavorra. 

D'altra parte, ci ha privato dello strumento della svalutazione competitiva; strumento che però era stato male utilizzato negli anni '70 e primi '80 dall'Italia. Anche qui il paragone di Zingales è molto suggestivo: se utilizzata oculatamente, come ha fatto l'Inghilterra, la svalutazione competitiva può costituire un utile strumento di aggiustamento verso il basso dei salari in situazioni avverse del ciclo economico, consentendo prezzi più competitivi per i prodotti, che si traducono in aumento dell'export e un conseguente assorbimento più efficace di crisi cicliche; era però diventata una droga anziché un anestetico nelle mani italiane: le continue svalutazioni negli anni '70 e '80, pur avendo consentito alle imprese di continuare a vendere i propri prodotti competendo sul prezzo, portarono l'inflazione a doppia cifra, così come i tassi di interesse sul credito alle imprese, scoraggiandole ad investire per modernizzarsi e competere di conseguenza sulla qualità del prodotto, più che sul suo prezzo. 

La crisi dell'Italia non è ciclica, bensì strutturale: non è conseguenza dell'ingresso nell'Euro, né l'uscita dall'euro risolverebbe di colpo tutti i nostri problemi, come molti vorrebbero far credere agli italiani in questa surreale campagna elettorale per le elezioni europee. La crisi dell'Italia risiede piuttosto nella mancata modernizzazione del paese, che dal punto di vista economico può essere tradotta come mancata crescita della produttività totale dei fattori. Delle molte cause che hanno contribuito a tale crisi di produttività, Zingales ipotizza in particolar 
modo due responsabili. 
La riluttanza che hanno manifestato le imprese italiane nell'investire sulle nuove tecnologie portate dalla rivoluzione informatica. 
Il fatto che le banche siano state, e continuino ad essere, in larga parte in mano alla politica per mezzo delle fondazioni. Cosa che ha condotto ad una discrezionalità nell'allocazione del credito verso aziende esistenti (per non dire degli amici), a scapito di idee nuove e potenzialmente innovative (e c'era chi già lo aveva affermato, oltre a Zingales).

Il dibattito su Europa o no, potrebbe essere dunque riformulato così: vogliamo procedere con fatica nella strada più difficile, quella della modernizzazione del paese, per allinearci agli altri paesi avanzati, facendo i necessari sacrifici nel breve termine?
Preferiamo piuttosto prendere rischi incalcolabili, rifiutando la sfida della modernizzazione, per competere sul prezzo col paese emergente di turno (l'altro ieri la Cina, ieri il Brasile, oggi l'Indonesia, domani il Burkina Faso)? 
O, ancora peggio, vogliamo finire sulla strada del nazionalismo e dell'autarchia, facendo inevitabilmente la fine dell'Argentina?
A voi la scelta, Europa o no.


Nicolò Gnocato



27 aprile 2014

Quelli che combattono sul fronte di ‘chi se lo merita’

Trilogia delle battaglie per i valori assoluti (Cap.II)


Ormai siamo talmente schiavi da non accorgerci che viviamo da tali. E’ abbastanza triste anche il fatto che facciamo di tutto per migliorare la nostra posizione di servitori, ma restando dei servitori, non sappiamo neanche più come si fa ad essere liberi nel paese che sembra una scarpa. Qui urge la necessità dell’esser breve e non spender troppe righe per questo concetto, perché dovrebbe essere una cosa chiara e le cose trasparenti non richiedono mai lunghe spiegazioni. Qui si tratta di togliere o strappare un velo.

Sembra che pochi si siano resi conto che nel duemilaquattordici facciamo politica ancora come in una monarchia dell’Ottocento. Così, per far finta d’essere persone civili, le mascheriamo da grandi conquiste dell’umanità. Da ora in poi smetterò con il  ‘noi’ e userò il ‘loro’, scusate ma non posso proprio far l’umilmente educato per etichetta, perché io e le persone di Fare per fermare il declino non c’entriamo nulla con questo. Con questo modo di agire da sovrani assoluti. Io mi sono indignato quando ho sentito parlare di quote rosa obbligatorie, non certo perché sono sessista è ovvio,ma perché, in primis, il concetto è ovviamente sbagliato visto che qualsiasi persona che riesca ad usare con un minimo di destrezza gli alambicchi della ragione, capisce che è di secondo(secondissimo, trascurabilmente secondissimo) piano il sesso dei nostri rappresentanti politici e questo è l’unico vero atto di umanità contro il sessismo. 

Di fatti il motto di una nuova legge elettorale che volesse estirpare il sessismo dovrebbe essere questo:

‘Al parlamento, se tutti uomini, o tutte donne, o metà e metà, o sessanta e quaranta non conta nulla, l’importante è che, sia gli uomini che le donne di cui è composto, siano persone competenti, fornite di uno spiccato senso civico e il più oneste possibile.’

Deinde  (ed è qui signori il punto più grave, di cui nessuno parla) questo è il modo di far politica che usavano i vecchi monarchi. Quando i moti e le tensioni sociali cominciavano a diventare incontrollabili, i re avevano solo due possibilità: 
1)Perire con il proprio regno
2) concedere ai propri sudditi diritti e privilegi per legge.

Tutte queste proposte che spacciano, o hanno spacciato, per atti di presunta civiltà, per me assomigliano più a concessioni regie.
Ma io sono un uomo libero e non sarò mai un suddito, quindi penso, esattamente come tutti voi, che uno dei pochissimi principi ragionevoli(e tra questi, forse, uno dei più sicuri) da seguire nell’affrontare questi argomenti, sia il merito. E non le concessioni sovrane per correggere un sistema dall’entrata deviata dalle raccomandazioni e altro. La conquista col merito. Conquista solo chi se lo merita.
Sono con e tra quelli che combattono sul fronte di ‘chi se lo merita.’



Francesco Guidorizzi

23 aprile 2014

Giustizia "donna" o giustizia e basta?




Piccola premessa; questo articolo dedicato alle donne vuole essere abbastanza controcorrente rispetto agli standard che si notano nei dibattiti attuali , e proprio per questa ragione correrà in difesa del genere femminile e delle tanto decantate pari opportunità.

Negli ultimi anni si è assistito ripetutamente a triti dibattiti parlamentari su due questioni cardine , ossia l'introduzione delle cosiddette "quote rosa" e la battaglia contro il femminicidio.

Chi vi scrive reputa un omicidio della medesima gravità , sia esso di un uomo o di una donna. La tematica risulta però particolarmente bollente e quindi è bene fare qualche osservazione in merito.

Il problema serio , come dimostrano i dati , non è tanto il femminicidio in se , che registra addirittura un calo rispetto agli scorsi anni, quanto il fenomeno più generale della violenza sulle donne. Si stima infatti che la spesa deputata all'assistenza, sia questa di tipo psicologico o sanitario , di donne che hanno subito violenza ammonti ad una cifra vicina ai 17 miliardi di euro , pari a tre manovre finanziarie. Un ulteriore dato allarmante riguarda la percentuale di denunce di violenza che ammonta solamente al 7% , seppure in crescita.

Il problema quindi non sta solamente nell'inasprire le pene per chi commette questi tipi di reato , quanto rendere l'iter giudiziario più snello e aumentarne l'efficacia garantendo la certezza della pena. Quante donne infatti saranno stimolate a denunciare e condannare coloro che le maltrattano , sapendo che andranno incontro ad una giustizia inefficace, lenta e foriera di incertezza?

Solo in questo modo si potrà fare un notevole passo in avanti riguardo il raggiungimento delle pari opportunità che , in questo ambito come in molti altri , sembrano ancora lontane anni luce.

Una possibile strada per affrontare tutto questo può garantirla un Unione Europea che tenda ad uniformare le durate dei processi per tutti gli stati membri , siano essi di tipo penale o civile . Sviando momentaneamente dall'argomento principale , a tutti è nota l'importanza di una giustizia civile efficace e rapida , specialmente in campo economico e più precisamente per quanto riguarda le concessioni di credito bancario.

Tornando al punto precedente ,garantire giustizia , specialmente verso le donne che subiscono violenza significa rispettarne la libertà e fare in modo che l'uguaglianza di genere non risulti più un tabù



Nicolò Guicciardi

Il caso Gebhard: il seme della nuova Europa

La prima volta che ebbi modo di parlare con Frederic fu lo scorso febbraio, in occasione di un aperitivo informale organizzato da alcuni membri lombardi del gruppo Giovani per Fare presso la storica Trattoria Toscana di Milano. A dire il vero, essendo uscito tardi dall'ufficio, riuscii a malapena a fare una breve apparizione all'appuntamento, limitandomi a presentarmi al gruppo per poi congedarmi immediatamente.
Frederic disse che sarebbe venuto con me e così, dopo aver salutato i presenti, si diresse con me e con Elvis verso l'esterno del locale. Elvis, razza labrador retriever, pelo nero, sguardo vigile, è il fedele ed inseparabile compagno di Frederic, che da 9 anni lo accompagna instancabilmente in tutte le sue avventure.

Ricordo che pioveva a dirotto sul pavè di Corso di Porta di Ticinese e che, in quel momento, stavo pensando che il metodo più conveniente per raggiungere Porta Garibaldi mettendomi al riparo dalla pioggia, fosse prendere un tram per Porta Genova per poi, da lì, fare il resto della tratta sfruttando la metropolitana.
"Verso dove vai?" gli chiesi.
"Verso il Duomo." rispose secco.
La direzione era quella opposta alla mia, ma pensai che avrei potuto deviare il percorso e camminare per qualche centinaia di  metri con lui, svoltando verso Sant'Ambrogio prima di imboccare via Torino.
"Andiamo dalla stessa parte." Conclusi.

Durante quella passeggiata, durata poco più di cinque minuti, procedendo lentamente affiancati dalle magnifiche Colonne di San Lorenzo, ricevetti una inestimabile lezione di vita. Dopo qualche imbarazzato scambio di battute sulle condizioni atmosferiche avverse, Frederic sfruttò una circostanza che ci accomuna, vale a dire il fatto di essere entrambi giuristi, per raccontarmi brevemente la sua storia. "Non so se conosci il caso Gebhard. Ecco, l'avvocato Gebhard è mio padre."
"Ma certo!" Nonostante, in effetti, il suo cognome non mi suonasse totalmente estraneo, fino ad allora non ero riuscito a mettere a fuoco il motivo di tale vaga familiarità: qualsiasi studente della facoltà di giurisprudenza che abbia affrontato in modo serio l'esame di "Diritto dell'Unione europea", ricorderà senz'altro che la normativa italiana di recepimento della direttiva 77/249/CEE in materia di libera circolazione dei servizi tra gli Stati membri, di cui alla l. 9.2.1982, n. 31, ha impegnato la Corte di Giustizia europea nella nota sentenza Gebhard: la controversia traeva origine dalla vicenda dell’avv. Gebhard, nazionalità tedesca, il quale, dopo aver lavorato per un certo periodo di tempo all’interno di uno studio legale di Milano, decideva di aprire un proprio studio presso il quale collaboravano anche professionisti italiani. Dopo qualche tempo, Gebhard veniva sottoposto ad un procedimento disciplinare avviato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano per violazione dell’art. 2, 2° c., l. n. 31/1982 che stabiliva che l’avvocato straniero che intendeva prestare servizi in Italia non poteva stabilire nel territorio della Repubblica né uno studio né una sede principale o secondaria.
La Corte di Giustizie europea, pronunciandosi in ultima istanza sul caso, diede ragione all’avv. Gebhard, rilevando l’incompatibilità della disciplina summenzionata con quanto disposto dalla direttiva 77/249/CEE, in quanto il divieto di aprire un proprio studio configgeva con la possibilità per il cittadino comunitario di prestare liberamente i propri servizi all’interno dell’Unione europea.

Gli chiesi allora se anch'egli, come il sottoscritto, aveva terminato gli studi e stava accingendosi alla professione, percorrendo il faticoso cammino della pratica forense. Sospirò. "Purtroppo, il mio percorso di studi, che ora è ripreso e che sto portando avanti, compatibilmente con i miei innumerevoli impegni, ha subito una brusca interruzione poco dopo il mio ventesimo compleanno, quando persi la vista a causa del diabete. Inizialmente, questa disgrazia ha rappresentato un ostacolo ai miei progetti ma, ben presto, mi sono rimesso in carreggiata e sono ancora più carico di prima. Diversamente da te, tuttavia, non credo di voler intraprendere la professione, vorrei, invece, portare avanti la battaglia di mio padre per un'Europa più unita scendendo direttamente in campo, in politica."
Il tono estremamente pacato, e tuttavia assolutamente fermo, convinto, deciso, con il quale aveva appena espresso le sue volontà, lasciava trapelare una determinazione disarmante. Provai per un istante ad immedesimarmi in lui, a ripercorrere mentalmente le sofferenze e le avversità che aveva dovuto patire, cercando di immaginare il coraggio e la forza d'animo che gli erano state necessarie per uscirne vittorioso, ma si rivelò uno sforzo superiore alla mia capacità di immaginazione.
Dunque, lo salutai e me ne andai per la mia strada con una disposizione d'animo nuova, contagiato da tutta quella forza interiore, pieno di energia, sprezzante della pioggia fastidiosa e del vento nemico che soffiava contro il mio piccolo ombrello, quasi non fossi reduce da una interminabile giornata di lavoro.

In occasione del Congresso Nazionale di Fare - Per Fermare il Declino, tenutosi a Firenze il 9 marzo 2014, Frederic è stato eletto membro della Direzione Nazionale del partito, con un vasto consenso. Il Congresso è stata la sede in cui si è cristallizzata formalmente la decisione del nostro partito di partecipare alla competizione elettorale in vista delle europee del 25 maggio e ho pensato che sarebbe stato senz'altro di buon auspicio portare nell'organo direttivo un giovane, dotato di una forza di volontà così straordinaria, e che serbasse nell'animo il sogno di lottare per un'Europa più forte e più coesa.

È presto giunto, dunque, il momento in cui Fare - Per fermare il declino, schieratosi, assieme ad altri partiti di stampo liberaldemocratico, nella coalizione ALDE, guidata dal fiammingo Guy Verhofstadt, ha deciso di indire le primarie per proporre i suoi candidati nella lista Scelta Europea. Il metodo iperdemocratico attraverso il quale è stata regolamentata la partecipazione alle primarie permetteva a chiunque fosse dotato di buona volontà e di un buon curriculum di candidarsi. L'unica limitazione, di natura soggettiva, era costituita dalla precisazione che ciascun candidato avrebbe dovuto provvedere personalmente al finanziamento della campagna elettorale, essendo le casse del partito tutt'altro che in esubero.
Scendere in campo in prima persona, lottare per un'Europa più unita, fronteggiare il sentimento nazionale di sfiducia nei confronti dell'Unione e della moneta unica, opporsi al proliferare dei politici e dei nuovi sedicenti economisti che proclamavano l'uscita dall'euro come soluzione della nostra crisi... di fronte a questo scenario, memore delle parole che Frederic mi aveva rivolto durante il nostro primo incontro, ero consapevole del fatto che non avrebbe resistito standosene a guardare o limitandosi a coordinare le attività del partito dalla Direzione Nazionale.

Ed infatti, dopo qualche incertezza, legata essenzialmente alle difficoltà connesse alla necessità di autofinanziarsi la campagna elettorale, Frederic ha annunciato la sua partecipazione alle primarie europee di Fare - Per Fermare il Declino, in qualità di candidato per la circoscrizione Nord-Ovest.
Il 4 aprile 2014, dopo tre giorni di votazione, i risultati non hanno lasciato spazio alle interpretazioni: Frederic Gebhard era il candidato della circoscrizione Nord-Ovest con il maggior numero di voti (737), con un distacco netto rispetto ai restanti partecipanti (me compreso).

Frederic Gebhard, classe 1980, nato a Stoccarda, padre austro-tedesco, madre italiana, con il suo sangue mitteleuropeo incarna al meglio lo spirito di Scelta Europea: crede in un'Europa federale, meritocratica, orientata verso l'armonizzazione economica, oltre che monetaria, tesa verso l'integrazione culturale e politica, oltre che legislativa; Frederic Gebhard crede in uno spazio comune in cui tutti i membri possano davvero sviluppare un percorso di crescita che consenta ad una nuova Europa, libera e forte, di affacciarsi al mondo ed al mercato con una nuova dignità.
Utopia? Frederic, citando Mandela, risponderebbe: "Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso."


David Mascarello


22 aprile 2014

In cammino per l'Europa, Bologna, sabato 10 maggio




Bologna, sabato 10 maggio 2014, ore 14:30, 
Starhotels Excelsior in Viale Pietramellara 5, a due passi dalla Stazione centrale

Incontro con Santo Versace, Presidente di FARE per Fermare il declino e i candidati per SCELTA EUROPEA:
Michele Boldrin, Cordinatore nazionale di FARE per Fermare il declino, Carla They, Elisa Petroni, Frederic Gebhard e Thomas Bastianel. Organizzato da GIOVANI PER FARE.
Il dibattito, organizzato in tre sessioni tematiche, si articolerà su alcune delle questioni di maggior attualità e rilevanza politica per la campagna elettorale, con la presentazione di importanti iniziative dei Giovani per Fare. L’evento sarà aperto a tutti: gratuito con offerta libera facoltativa per gli under 35, con contributo minimo di 10 Euro per gli adulti. 

PROGRAMMA IN CORSO DI DEFINIZIONE

14:30 Arrivo dei partecipanti

15:00 Saluti di benvenuta/o: Santo Versace, Guy Verhofstadt [video]

15:30 - 16:30 SESSIONE N.1: Sì-AMO l’EUROPA
FARE significa anche presentare iniziative concrete. In questi pochi mesi di attività, noi Giovani per Fare abbiamo supportato e ideato progetti che vogliamo intraprendere nei prossimi mesi: l'abolizione totale dell'IRAP, l'abbattimento di accise inutili e regressive, la lotta alle ecomafie e la tutela della divulgazione scientifica. In questo spazio vogliamo dibattere delle nostre idee, anche con l'aiuto di alcuni giovani amici che studiano e lavorano all'estero grazie al programma Erasmus, stimolando proposte e tematiche da parte di chiunque abbia un progetto da presentare e lo voglia condividere con noi.
Modera: Nicolò Guicciardi
Interventi di apertura: Daniele Spera, Ferdinando Giordano, Giovanni Caccavello [video], Verdiana de Luca
Spazio riservato a quanti tra i giovani vorranno intervenire (*)
Andres Bossio, Daniel Baissero, David Cioccolo, Nicola Cinquina [video]... in progress

16:30 - 17:30 SESSIONE N.2: LA BELLA D'EUROPA
Nonostante il declino del sistema Italia, causato da decenni di malgoverno, diversi settori riescono a competere ogni giorno con il mercato globale. L'Italia si pone nei primi tre posti al mondo per valore di esportazioni per 943 prodotti merceologici e tra i leader mondiali per indotto turistico, sia dentro che soprattutto fuori l'Unione Europea. Made In Italy, industrie creative e culturali, turismo e Green Economy sono le tante facce della qualità del nostro paese: come trasformarle nelle risorse principali per uscire dalla crisi?
Modera: Federico Figini
Interventi di apertura: Santo Versace, Franco Cappuccio, Paolo Briganti, Simona Benedettini
Spazio riservato a quanti tra i giovani vorranno intervenire (*)... in progress
Matteo Feltracco [video]

17:30 – 18:00 Pausa

18:00 – 19:00 SESSIONE N.3: L’EUROPA CHE CI SERVE
Le elezioni sono imminenti e Fare si presenta nella famiglia europea di Alde con l'intento di scardinare l'eccessiva burocratizzazione dell'Unione Europea. Vogliamo parlare di mobilità degli studenti e dei lavoratori nell'Unione e di sussidio di disoccupazione europeo, di diritti civili e di diritto d'autore a livello comunitario e italiano, di progetti europei per la ricerca, per le start-up e per abbattere le barriere linguistiche. Quali e quante sono le riforme da sottoporre all'UE che servirebbero con maggiore urgenza ai giovani?
Modera: Chiara Bastianelli
Interventi di apertura: David Mascarello, Gabriele Galli (video), Giandomenico Ciccone, Saul Giordani
Interventi dei candidati: Carla They, Elisa Petroni, Frederic Gebhard, Thomas Bastianel

19:00 Intervento di Michele Boldrin,
Coordinatore di FARE per fermare il declino e capolista di SCELTA EUROPEA nella circoscrizione Nord-Est.

Dopo la conclusione dell'evento la serata continua al Bar Ristorante Krisstal,  in Piazza Liber Paradisus 1.



IL COMITATO ORGANIZZATORE
Andrea Arsani, Chiara Bastianelli, Daniele Spera, Enrico Miglino, Federico Figini, Francesco Baiesi, Franco Cappuccio, Giandomenico Ciccone, Gianluca Tristo, Giuseppe Carteny, Marco Armani, Mario Melillo, Nicolò Guicciardi, Saul Giordani, Verdiana De Luca


(*) I giovani interessati ad intervenire possono prenotarsi scegliendo tra la prima e la seconda sessione, inviando la richiesta a giovaniperfare@fermareildeclino.it. Saranno accettati sino ad un max di sei interventi [2 minuti] per sessione.

Metodo scientifico all'Italiana

È stato presentato oggi alla Camera dei Deputati il risultato di una ricerca , promossa senza alcun contributo pubblico dall'Associazione Luca Coscioni, riguardante l'indice di libertà di ricerca scientifica in 42 paesi del mondo presi in considerazione.
Per fare chiarezza, questo indice prende in esame quattro ambiti fondamentali di ricerca, quali aborto,
fine vita , riproduzione assistita e cellule staminali embrionali.
L'Italia , che per l'ennesima volta si presenta come un'anomalia tra i paesi sviluppati, ha profondamente deluso le aspettative piazzandosi miseramente al 35esimo posto per libertà di ricerca scientifica, profondamente distanziata da Francia (17esima) e addirittura Grecia (sesto posto).
Come prima riflessione su questo deludente risultato, viene da considerare innanzitutto i quattro ambiti scientifici oggetto di analisi. Sia chiaro che chi vi scrive non vuole in alcun modo "anticlericalizzare" questo articolo, ma si può asserire con ogni probabilità che non è un caso che paesi scientificamente avanzati a profonda tradizione cattolica e in cui la chiesa cattolica ha una rilevante influenza come l'Italia (e anche l'Austria, ndr), esista una correlazione con la scarsa libertà di ricerca su tematiche come aborto, fecondazione assistita, cellule staminali embrionali e fine vita.
La seconda e ultima considerazione che è opportuno fare riguarda l'ulteriore correlazione tra libertà scientifica e funzionamento della fase decisionale propria dei regimi democratici. Dai dati, si ritiene pressoché fondamentale sviluppare, intensificare e mettere più spesso in pratica il metodo scientifico, poiché solo attraverso questo si riuscirà a prendere decisioni politiche ponderate e foriere di quel pragmatismo che in questi anni è mancato troppo spesso, abbattendo in questo modo barriere ideologiche oltre che di progresso nel nostro paese.

Nicolò Guicciardi

17 aprile 2014

L'atterraggio d' emergenza di un emiro qualunque


Nella giornata di oggi è , in maniera del tutto sorprendente , saltato l'accordo di partnership tra la compagnia aerea degli Emirati Arabi Uniti Ethiad Airlines ed Alitalia , che prevedeva sostanzialmente l'ingresso della prima nel capitale della compagnia di bandiera italiana con una quota del 40-45% pari a circa 500 milioni di euro. Continua quindi quella che sembra una vera e propria maledizione , presentatasi già una volta , quando Air France si presentò al tavolo delle trattative per il salvataggio della nostra disastrata compagnia aerea.
Le condizioni per cui il "matrimonio volante" tra Emirati e Bel paese è momentaneamente interrotto , riguarderebbero infatti garanzie non date su tre fattori di notevole rilevanza e ritenute necessarie da parte di Ethiad ossia collegamenti strategici tra alta velocità e hub di Fiumicino , tematica esuberi di personale (pensate infatti che si parla di un numero cospicuo ammontante a circa 3000 posti) e abbattimento dei debiti da parte delle banche.
Ragionando ora su quanto è appena accaduto , viene da porsi alcune domande . Innanzitutto , secondo chi vi sta scrivendo , privatizzazioni fatte con criterio , ossia selezionando i possibili acquirenti e/o soggetti privati interessati in base alla loro affidabilità e ad altri importanti fattori che non è il caso di elencare in toto , possono senza dubbio aiutare a rendere tali aziende più competitive sul mercato e al passo con l'innovazione che di questi tempi è richiesta.
Se però , come in questo caso , si assiste , oltre al totale fallimento della famosa "cordata" di imprenditori italiani nel periodo iniziale dell'ultimo governo Berlusconi , anche ad un disinteresse proveniente perfino da una compagnia aerea di un paese economicamente ben più prospero del nostro come gli EAU , ci si chiede se Alitalia (e non solo) è davvero cosi drammaticamente disastrata e poco appetibile da non riuscire nemmeno ad attirare interesse verso acquirenti ben più "facoltosi" di quelli italiani.
La domanda chiave quindi è : come si esce da questa grave empasse? Intanto la nostra compagnia di bandiera e il suo immenso buco nero è ancora a carico dei contribuenti.

Nicolò Guicciardi


Fuori i partiti dalle banche = più produttività e crescita

La mancata crescita dell'Italia è solo stata aggravata dalle ultime crisi (finanziaria globale del 2008, e del debito sovrano nel 2011), ma è in corso da oltre vent'anni. E' noto che essa è in realtà riconducibile ad una mancata crescita della produttività totale dei fattori.

Spesso, la causa viene individuata nella scorretta allocazione del fattore lavoro. Ma anche il capitale per investimenti non è stato allocato nel migliore dei modi, anche se di questo si parla meno.
Una delle radici di ciò, è certamente riscontrabile nell'assetto proprietario delle banche italiane.
Queste furono privatizzate nel 1990 dalla cosiddetta legge Amato, che trasformò le vecchie Casse di Risparmio in fondazioni bancarie, proprietarie inizialmente del 100% del capitale delle banche cosiddette conferitarie. Tale capitale avrebbe dovuto negli anni essere venduto ai privati, ottenendo così la privatizzazione del sistema bancario italiano, in linea con gli standard europei.

Tuttavia, le fondazioni detengono tutt'oggi quote di capitale nelle banche. Ad aggravare l'intreccio e' intervenuto Tremonti nel 2002, che stabilì che i vertici delle fondazioni dovessero essere di nomina politica e che le stesse dovessero dismettere le quote di proprietà nelle banche, concentrando la propria attività nella promozione del territorio. Mentre la prima indicazione della legge fu seguita alla lettera, così non è stato per la seconda.



La procedura di nomina funziona in breve così.
I politici eletti negli enti locali, nominano i dirigenti delle fondazioni bancarie. I dirigenti nominati nelle fondazioni bancarie, per lo più politici senza competenze in materia finanziaria, scelgono i dirigenti delle banche di cui le fondazioni detengono ancora quote di proprietà, nonostante la legge ne abbia imposto la dismissione. Le banche, erogano così credito preferibilmente a chi fa più comodo ai politici, che possono quindi comprare consenso, oppure trarne vantaggi finanziari personali.
Per chiudere il cerchio, le fondazioni, anziché investire le risorse nella promozione del territorio di riferimento e diversificare gli investimenti, come dovrebbero per legge, preferiscono concentrarle nel non perdere il potere che detengono nelle banche.
Cosa ha comportato e comporta, quindi, questo intreccio perverso?

Sono ricorrenti notizie del tipo: "sofferenze bancarie in aumento", oppure: "azienda fallita, anche se aveva lavoro, perché la banca non concede credito". 
Siamo da tempo entrati in un circolo vizioso per il quale i numerosi fallimenti aziendali hanno comportato “sofferenze bancarie”, ovvero situazioni in cui le banche non hanno più potuto ricevere indietro il credito precedentemente offerto. 


Le banche, in conseguente sofferenza di capitale da concedere a prestito, hanno chiuso i rubinetti, limitando i casi in cui concedono credito, ed applicando elevati tassi dinteresse per rientrare delle perdite trascorse e potenziali. Risultato: il poco credito alle imprese italiane, risulta più costoso nel confronto con i competitors europei.




Come si è arrivati a questa situazione? 
Un'interessante chiave di lettura e' riscontrabile in uno studiodegli economisti Ottaviano e Hasan, pubblicato su voxeu.org.
Dai dati, essi hanno evidenziato come in Italia, tra il 1995 e il 2006, si sia investito maggiormente in settori manifatturieri che hanno registrato bassa crescita di produttività, se non addirittura una diminuzione. In Germania, e' avvenuto invece l'opposto.


Linvestimento, ad esempio un nuovo macchinario con cui il lavoratore può produrre più efficientemente, dovrebbe essere appunto finalizzato alla crescita della produttività. 
Una impresa più produttiva può offrire salari più alti e crescere, offrendo nuovi posti di lavoro.
Ma abbiamo visto che in Italia non è andata proprio così.

Molto spesso, lazienda, per disporre del capitale necessario allinvestimento ricorre al credito. Ma come e' stato allocato il credito in Italia?
Dallo stesso studio, emerge che non c'è stata alcuna correlazione tra credito erogato e crescita di produttività: le imprese degli amici non si sono rivelate essere poi quelle più solide e innovative.
Inoltre, attraverso delle simulazioni, hanno dimostrato che, per quanto riguarda il solo settore manifatturiero, se le risorse fossero state allocate a caso anziché con discrezionalità partitocratica, si sarebbe addirittura registrata una maggiore crescita di produttività.
Ma non è finita; complici la crisi finanziaria del 2008 e la crisi del debito sovrano del 2011, si è innestata una spirale negativa: le imprese poco produttive, verso cui era stato preferito il credito, sono fallite più facilmente, non potendolo restituire alle banche. Le banche, in conseguente sofferenza, hanno "chiuso i rubinetti", negando ulteriormente credito a chi lo meriterebbe. Le fondazioni politicizzate, nel mentre, si sono sistematicamente opposte ad aumenti di capitale nelle banche, per non diluire le proprie quote di potere, aggravando ulteriormente la stretta creditizia.

Questi sono solo alcuni dei danni che ha comportato la discrezionalità nell'allocazione del credito, che si concretizza attraverso il ruolo di influenza che i partiti riescono ad avere nelle banche mediante le fondazioni.
Chiamiamola, se vogliamo, partitocrazia 2.0.


Per concludere, qualcuno potrebbe chiedersi cosa comporta la mancata crescita di produttività che ho spesso menzionato. Ricorro ad un'affermazione di Paul Krugman, noto economista premio nobel, del quale non condivido molto le idee, ma che ha saputo condensare molto bene il concetto:

"La produttività non è tutto, ma nel lungo periodo e' quasi tutto. L'abilità di un paese nel migliorare i propri standard di vita nel tempo dipende quasi esclusivamente dalla sua abilità di accrescere il proprio prodotto per lavoratore".

La crescita, così difficile da riagguantare in maniera duratura da vent'anni a questa parte, è nell'interesse del benessere di tutti noi italiani, nessuno escluso, a partire dai più deboli.
Un pil in crescita garantisce, oltretutto, la sostenibilità dell'enorme debito pubblico, del bilancio, e di spese elefantiache che ci troviamo a dover sopportare, come ad esempio quelle per il sistema pensionistico più costoso d'Europa (che andrebbero tagliate anche per una semplice questione di equità inter-generazionale, ma questa e' un'altra storia).
Anche per questo, ora più che mai bisogna dire con convinzione: fuori i partiti dalle banche e credito a chi lo merita.


Nicolò Gnocato


N.B. Nicolò Gnocato, iscritto a Radicali Italiani dal 2013, ha contribuito a redigere ed è tra i primi firmatari dell'appello per chiedere al parlamento di legiferare imponendo la dismissione delle quote di proprietà delle fondazioni nelle banche.
Maggiori informazioni possono essere trovate al link: radicali.it/banche, dove è anche possibile sottoscrivere l'appello al parlamento e contribuire alla campagna.